“Uno chef che prescinde dal suo ecosistema e dall’ambiente in cui è inserito non può essere definito contemporaneo”.

Questa frase m’arriva in testa, violenta e improvvisa, come un pigna che casca dall’albero nel bel mezzo di un tranquillo lunedì di Pasqua e mi risveglio al Larice Bruciato in Val Sassina, nel bel mezzo del nulla, con il mio cane batuffoloso e felice nello zaino. E mi chiedo che cosa ci faccio qui?

Valeria Margherita Mosca è uno dei molti talenti italiani di cui non parlano gli italiani al bar sport, cresciuto come un germoglio di speranza sulle ceneri generate dal napalm distruttivo fatto di plastiche e cemento, eredità delle generazioni che hanno saccheggiato il mondo. Vorrei prendere chi ci chiama Bamboccioni o un briatore qualunque, bendarlo, rapirlo e portarmelo in spalla, dato che magari non riesce a fare due passi a piedi e fargli seguire questa donna che sta costruendo sentieri giganti mentre loro costruiscono autostrade inutili e palazzi. Ma fermo la mia ira verso il passato e mi concedo il lusso del e vi racconto questo magico folletto dei boschi.

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Per spiegare chi è lei e cosa sta facendo bisogna definire il foragin che è riportare agli albori del mondo il concetto di cibo e trasformarsi da coltivatori e distruttori seriali a raccoglitori estemporanei, facendo shopping in mezzo alla natura.

Mentre camminavo affannato, cercando di stare dietro a questa madre natura selvaggia, con gambe lunghe e veloci, ogni tanto mi trovavo in bocca qualche erba o foglia dal nome strano. La ruminavo e mi sentivo subito ispirato:  mentre scendevo a valle mi venivano in mente ricette, accostamenti, piatti e addirittura una religione. Il punto è la ri-conessione con la natura, l’abbiamo saccheggiata, depredata, assassinata e ora questa onda energetica che si sta diffondendo nel mondo anche grazie a Valeria pone al centro il carisma del silenzio: un imbarazzato essere umano colpevole che ritrova la sua anima scrostandola dal cemento armato e riportandola alle sue origini, persa nel nulla.

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E Valeria insegna questo agli chef stellati, li ri-conette con il proprio eco sistema, con i prodotti e i frutti che la natura genera spontaneamente e nell’orecchio suggerisce loro ingredienti magici che sono già qui da sempre, vanno solo colti, magari fermentati o lievemente trasformati come fa lei e il suo team nel Wooding Lab alle porte di Milano.

Io, l’anti natura, urbano e contemporaneo come un palazzo di cemento che si crede falsamente moderno, mi trovo ri-conesso, in pace (e fidatevi mi capita raramente), su questa cima fra le nuvole, ispirato. Mi sento come quando ero piccolo e cercavo con le dita rami, sassi, quadrifogli nei prati: cercavo me stesso perdendomi nella natura. Perché da piccoli la cerchiamo come un’istinto e poi la perdiamo e ci dedichiamo alle tecniche e la dimentichiamo come una nonna che abbiamo amato ma ora non c’è più.

Dovreste fare un giro con questa sacerdotessa contemporanea, o con la studiosa, la scienziata, la selvaggia, per capire che il più grande dei futuri possibili, anche per chi guarda alle stelle sta nel cercare in basso, fra i rami, nel verde, nei prati.

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E lei figlia del cemento, ha scelto una casa sotto le stelle e una dispensa fatta di prati, boschi, rive di fiumi e un piccolo laboratorio dove compiere magie.

Leggete il suo Wild Mixology, cercate di capire dove stiamo andando o meglio dove stanno andando alcuni di noi che nel guidarci e renderci un po’ più civilizzati ci stanno facendo guardare indietro e ci suggeriscono di rallentare, trasformando i vorrei  che ci affliggo nel cemento in un secondo di pace immersi IN TO WILD.

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